domenica 8 gennaio 2012

Nino Rota a Bari

31 dicembre 1975, Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari. 

«Mè, muoviti, che il direttore sta aspettando!». Quasi spinto dalla burbera invettiva dell’indimenticabile Maria Decataldo, custode della scuola e moglie di Peppino, autista, factotum e uomo di fiducia su Bari del Maestro, entro in direzione. Sul lunghissimo pianoforte Bösendorfer che occupa quasi tutta la stanza, Rota sta suonando i temi appena sbozzati per il Casanova di Federico Fellini: il regista ascolta, accoccolato in tutta la sua notevole mole sul piccolo letto che sta lungo la parete di fondo della direzione stessa. È questo il ponte di comando da cui Nino Rota, spesso senza darne il sospetto, governa e pilota quello che lui ha reso il più prestigioso e rinomato istituto musicale italiano.

A noi allievi di quei tempi mitici capitava spesso di incontrare per i corridoi della scuola Eduardo De Filippo o Franco Zeffirelli, Lina Wertmüller o Giulietta Masina o Sandra Milo – tanto per citare solo alcuni dei mostri sacri del cinema – per non dire di Carla Fracci o Sviatoslav Richter, Arturo Benedetti Michelangeli o Arthur Rubinstein, Nicola Rossi Lemeni o Virginia Zeani, e così via.

La Bari dell’epoca era una città in cui noi studenti dello storico ed illustre Liceo Classico Orazio Flacco ci sentivamo quasi a disagio perchè l’assenza, almeno apparente tale, di deprecabili ed infami fenomeni di certa criminalità o della diffusione della droga, quasi ci pareva una riprova di una dimensione ancora provinciale e “all’antica”. Saremmo stati ben presto smentiti, ahimè, e non certo gratificati dalla caduta verticale di civiltà che è seguita a quell’ultimo periodo di una dimensione del vivere non provinciale o antiquata, bensì tradizionale nel senso alto del termine e, soprattutto ancora legata saldamente ai valori di princìpi etici reali e determinanti.
Ma allora la smania di aggiornarsi a tutti i costi ai nuovi modelli americanizzanti ci faceva sentire un po’ stretti in quella città in cui ancora ci si conosceva un po’ tutti e dove nei luoghi deputati alla cultura ci si ritrovava davvero tutti.

Quando cominciai a frequentare il Maestro mi accorsi che in quella villa circondata da un giardino e da un alto muro di cinta passavano alcune delle personalità che fino ad allora avevo ammirato e solo sognato di poter vedere da vicino. E scoprii ben presto che gli allievi dell’istituto, allora molto meno numerosi di oggi, apprendevano ad aver confidenza con quello che poteva significare la fama e la genialità, dalla naturalezza con cui quei personaggi venivano portati in giro per i corridoi della scuola, magari affacciandosi ad ascoltare qualche lacerto di lezione in qualche aula.

...ma torniamo a quel 31 dicembre ed a Fellini seduto sul letto in cui Rota dormiva quando era a Bari...

A proposito! Era diritto del direttore di un conservatorio godere di un alloggio nell’edificio scolastico: credo perchè il direttore era l’unica persona ufficialmente autorizzata dai severi regolamenti degli esami di diploma di composizione, ad entrare nelle aule che accoglievano i candidati sottoposti alle due durissime prove di trentasei ore in isolamento. E quanti candidati, sfiniti dalla difficoltà oggettiva di comporre un quartetto o una sinfonia in pochissimo tempo, si vedevano, nel cuore della notte, confortare un po’ dalla cordialità con cui il maestro provvedeva a tranquillizzare il forzato delle note. Con la naturalezza dei grandi spesso Rota suggeriva una soluzione ad eventuali dubbi o inciampi sul percorso compositivo.

… ancora quel 31 dicembre. Rota ci suona i temi principali, Fellini ci snocciola aneddoti su aneddoti circa quel che è accaduto durante la lavorazione del film: tra l’altro erano state rubate alcune parti girate e mai più ritrovate. La stessa sorte era toccata a parti del film Salò di Pier Paolo Pasolini, da poco ucciso in un contesto che Fellini non riusciva ad accettare e che resta ancor oggi poco chiaro. E venne fuori che il protagonista del film, Donald Sutherland…:
-È un bell’uomo!
-Ma quando mai, è bruttissimo!
-Ma è un bravo attore?
-Per carità!
-È simpatico?
-Uno str….zo!
-Ma allora perché l’hai scelto?
-È perfetto per la parte.

Questi paradossi tipici di Fellini non mi facevano più specie, dopo tanti anni di frequentazione, in virtù del mio discepolato col Maestro. Io non escluderei che Sutherland gli piacesse molto e gli fosse anche parecchio simpatico, ma posso assicurarvi che l’effetto di queste uscite bizzarre era sempre esilarante, sempre croccante di quella capacità di sostenere con tracotanza le più sfacciate panzane ed insieme di mentire la verità: questa è forse la cifra più tipica della poetica felliniana, così sapidamente e, starei per dire, arcanamente rivestita dai temi trascoloranti ed evocativi di Rota. 

E nel Casanova la musica ebbe un rilievo amplissimo. Già nel precedente film Roma la geniale sequenza del defilè di moda ecclesiastica è una vera e propria videoclip ante litteram. Nel Casanova alcune sequenze erano vere e proprie pantomime, frammenti di rappresentazioni di opere e veri e propri numeri di danza. E così la musica sosteneva le grottesche performances meccanico-erotiche di un Casanova tutt’altro che seducente così come la danza della bambola meccanica, unico vero amore restato a chi dell’amore, nella spietata visone felliniana, aveva eluso la dimensione più sacra. 

Il Giacomo Casanova felliniano aveva finito per incasellare esperienza su esperienza come in un museo di storia naturale con soggetto principale l’uomo e le sue smanie. Questo tema sarebbe stato poi funereamente variato nella Città delle donne, nell’episodio delle lapidi degli amori collezionati da Sante Catzone. Un autore come Fellini, che si appropriava di personaggi mitici come Giacomo Casanova o dei personaggi e degli eventi del Satyricon per farne un palinsesto da rivestire con le proprie fantasti(farneti)cazioni a costo di falsarne la natura originale, anche nella vita inventava continuamente, anche relativamente a se stesso. 

E credo che Federico talvolta non sapesse a quale se stesso desse parola e sostanza: alla fine di un film, quando a furia di inventare, realtà ed invenzione supplivano ognuna all’altra, il momento del lavoro sulla colonna sonora era per lui il ritrovamento della dimensione della realtà che poteva essergli sfuggita. La forza interiore di un uomo della cultura e della sapienza di Rota, sapeva infatti trasformare continuamente le cose senza perdere mai l’orientamento, attraverso quel mondo della musica che Fellini definiva un mondo con leggi solide ed indiscusse. E la musica di Rota era l’unica che Fellini riusciva ad ascoltare perché, col pretesto della sua funzione nella realizzazione cinematografica, con questo diaframma “professionale” si sentiva protetto da quel mondo sereno del quale si sentiva ospite straniero sotto la virgiliana tutela rotiana.

Girammo tutto il conservatorio quel primo pomeriggio dicembrino, e mostrammo a Fellini la biblioteca ed il busto di Piccinni («Fra cent’anni – disse – naturalmente qui ci metteranno il tuo») e l’incompiuto auditorium, strenuamente voluto da Rota e che sarebbe stato inaugurato parecchi anni dopo la sua morte. Si vede che certe cose hanno un loro destino difficile: o forse non sono abbastanza produttive di potere? L’auditorium è attualmente inagibile, con grave danno della città alla cui cultura musicale Rota aveva cercato di fornire stimoli e strumenti di crescita e consapevolezza.

Nel salone dell’organo Rota suonò sui due gran coda da concerto Steinway e poi sull’organo e poi ancora sul clavicembalo i temi che sarebbero poi confluiti nella partitura. Poi si misero nell’auto di Peppino che li accompagnò all’aeroporto ed andarono a passare insieme la fine dell’anno.

Ed io che c’entravo? Perché ero stato convocato a quello sfiziosissimo meeting rotian-felliniano sotto l’egida della bautta di Casanova?
Mi spettava il regalo di Natale!



Nicola Scardicchio

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